Q.W.E.R.T.Y.U.I.O….
L’uomo è seduto e gioca coi tasti. Dovrebbe scrivere.
Forse anche vorrebbe, nella giornata di luce argentata. Che quando
piove, di una pioggia a mezzo sole, ogni colore sembra farsi argento
scuro, un poco opaco.
Argento di quello un po’ pesante, nato che già sembra antico, argento di
un qualsiasi monile indiano.
Rilegge la fila di lettere battute sullo schermo. Quasi svogliatamente.
In fila da sinistra a destra, la prima riga alta di lettere che abbiano
un senso possibile, assemblate, in file rigorosa, sinistra – destra,
dopo la sequenza degli F1 a salire e i numeri con i segni di
interpunzione shiftati. Le ultime lettere che ha scritto scrivono IO.
E allora, per scivolo naturale, casualità di tasti o impellenza segreta
della testa, pensa.
Io.
Che pensare è dolce malattia e al tempo stesso cura vigorosa di desideri
e motore delle gambe, delle mani, del sesso che ora carezza, si scopre
anzi a carezzare con crescente voglia e risposta, senza nemmeno
rendersene conto all’inizio, dentro i pantaloni.
La vede, oltre monitor e tasti, nella luce argentata della pioggia,
filtrata oltre i vetri imperlati. Di gocce dispettose cadute non
diritte, ma spinte da venti imprevedibili, nemmeno percepiti,
caparbiamente, isolate in attesa di scivolare e finire sul davanzale
anch’esse. Eppure nate per stare lì sul vetro forse, scostate e
separate.
La vede che risponde, all’immagine della sua non più inconscia né celata
carezza su se stesso. La vede spogliarsi delle sue parole, senza che lei
nemmeno osi alzare il viso per specchiare i suoi movimenti dentro il suo
manifesto piacere mentre, compiaciuta e quasi stupita lei lo guarda.
La vede farsi piccola, quasi all’istante, abbassando lo sguardo come
tutta risposta. I primi movimenti di lei sono quasi infantili.
Tradiscono, coniugati con la voglia di obbedirgli e di rispondere al suo
toccarsi, quasi imbarazzo.
Poi, mano mano la vede diventare più sicura, quasi studiare gesto dopo
gesto, come se cercasse in sé, nei suoi cassetti mille doni. Che ogni
gesto possa essere un regalo offerto alla sua eccitazione è quello che
probabilmente la ragazza dentro di sé pensa..
Così la camicetta resta, sbottonata, socchiusa. Dopo che lei ha avuto
ragione di ogni bottone, lenta, uno dopo l’altro li ha sconfitti con
calma inesorabile e perfetta.
Sulle coppe nere, tenda di camicetta, ricamate, che le imprigionano e
imprigionano il seno.
Oscilla ad ogni movimento, apre e si chiude su se stessa, e si fa velo.
Scopre e cela. Il seno, l’ombelico carico di ombre e chiuso come un
fiore sul suo ventre.
Scioglie i capelli che lui le fa portare quasi sempre legati sulla nuca,
in una coda stretta. Quando escono fuori.
Perché chiunque al suo collo veda il suo strano monile.
La collana di maglie metalliche, preziosa, così simili a quelle di una
catena. Da non permettere a nessuno di passare inosservata. Posata
morbida sulle fosse del collo alla gola.
Lei sgancia ora la gonna.
Ruotandola sul fianco, sollevando leggermente l’anca a lato. Le dita
delle mani ad armeggiare sicure ma senza fretta alcuna sul fermaglio,
sollevandola di lato a scoprire lembi di coscia sotto. Velata solo
dall'ombra di una calza di cui, la gonna sollevata a lato, scorge ,
scuro, sulla pelle pallida di inverno, ora il confine. La breve lampo
che scorre docile e scende fino alla sua fine.
La ragazza non aiuta la gonna a calarle lungo le cosce, la tiene,
aperta, libera, sospesa un istante ancora alta con le dita delle mani.
Poi la lascia precipitare ai piedi.
Al centro della gonna. Le cosce accostate, nude in alto e poi scure
della notte di nylon velato che le ammanta.
La gonna che si piega al suolo su se stessa. Si compone in un alone
irregolare di tessuto ripiegato a caso in mille pieghe. Lei allarga i
piedi fino a toccarla, si scostano le cosce e si apre il suo compasso di
gambe, e migliora il suo equilibrio ferma lì davanti.
La camicetta libera anche in vita ora si allarga. Con gli occhi chini
lei sfiora con lo sguardo un seno.
Porta le mani lì, al piccolo gancio nascosto tra le coppe. I seni che si
accostano mentre lei tira il tessuto fino ad aver ragione del piccolo
gancio anteriore.
Sa, senza alzarli per guardarlo, che gli occhi di lui non perdono un
istante, un gesto. Nemmeno uno solo. E avrebbe voglia, tanta di
raccogliere da quegli occhi soddisfazione per il dono che gli sta
facendo.
Della sua bellezza. Della sua seduzione.
Resta invece a guardarsi le mani. Ad occhi chini guarda le sue stesse
dita tenere vicine le due coppe appena liberate. Poi libera i due lembi
di tessuto, e la tenda di coppe e mani si ritrae a lato. Lasciando
liberi i suoi seni. I capezzoli grinzosi e scuri. Strozzati già e
rabbrividiti su se stessi dal calore umido dei suoi pensieri.
Lascia scivolare una spallina. L’altra. E le bretelline sottili e nere
sono alla piega dei gomiti un istante, prima di liberarsi dalle braccia
e raggiungere il suolo.
Per liberarsi del reggiseno ha dovuto flettere le spalle, indietro,
avvicinando le scapole tra loro, un poco flessa.
Gonfiando e offrendo in fuori ostentato e fermo il seno. Nel tempo di un
respiro.
Che implacabile lo gonfia.
In piedi, adesso, davanti all’uomo, con le braccia accostate ai fianchi.
E il capo basso e gli occhi fissi a terra.
Il laccio nero a cingerle il polso che le sfiora la gamba, simbolo
pagano di guerriera, prigioniera, lei si lascia percorrere e guardare.
Esplorare dagli occhi e dai pensieri di lui che con quegli occhi e col
pensiero la circonda. Quasi fisicamente, Tangibilmente, al punto che
lei, sotto le sguardo che pure non osa incrociare, ha un brivido. A,
correrle salendole la schiena, a morirle tra le spalle.
Rimane lì, come aspettando qualcosa che deve succedere sicuramente. E
non succede.
Era esattamente quel nulla così denso la sua attesa.
Prima di accostare le mani ai fianchi, all’elastico che sottile li
segna, nero.
A farlo scivolare. E con lui il sottilissimo lembo che si ingrotta,
nascosto nel solco del suo culo.
Si flette, nel farlo, e il seno le si riempie. Sotto di lei china in
avanti, a sollevare prima una caviglia, poi l’altra.
Fino ad aver ragione dell’ultimo, piccolo, fragile, indumento nero.
Poi si raddrizza, al suolo le tracce scompigliate della sua svestizione.
Le gambe, nere fino alla fine delle cosce, poi così chiare per
contrasto, oltre l’orlo più scuro delle calze, un orizzonte di carne.
Il sesso nudo, disegnato dalla pieghe morbide. E non celato, per uso ed
abitudine e capriccio lui così la vuole, in alcun modo da alcun pelo. Le
labbra gonfie sino a sembrare un po’ infantili, bocca di fica senza
rossetto e senza stacco di colore.
Il laccio al polso che sfiora il suo corpo mentre lei si muove e il
brivido di quel contatto che lei, tremando, non osa né reprimere né
celare.
Ad occhi chiusi lei aspetta. Che lui la venga a toccare.
L’uomo alla tastiera sta toccandola. Sta cercandola ad occhi chiusi su
se stesso mentre lei adesso è nuda e trema nella sua mente.
Ha abbandonato “qwerty” e “io” sullo schermo immoto.
E, per scivolo naturale, casualità di tasti o impellenza segreta della
testa e delle voglie, a lei, sua prigioniera per sua stessa resa, pensa.
Ha sciolto la cintura alta, il primo bottone. La lampo è scesa.
Oltre la lampo ha affondato la mano e dato vita alle dita serrate a
pugno.
La sta cercando ora.
La trova e la stringe.
La sente.
La tocca.
Nelle sue stesse mani, con cui si da piacere, ora lei è sua.
E a occhi chiusi a lui sta sorridendo e aspetta.
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